Questo è il mio commento sul disco... per chi ha il coraggio di leggerlo...
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Cinque anni di silenzio non saranno 10.000 giorni, ma si tratta comunque di una lunga attesa.
E sono passati poco meno di cinque anni da quando conobbi i Tool imbattendomi quasi per caso in un assurdo video trasmesso a tarda ora su MTV, video che poi scoprii essere Parabola.
Non fu come in fotoromanzo, non fu amore al primo ascolto. E come poteva esserlo? Avrei capito quel labirinto in formato canzone solo tempo dopo… ma da allora i Tool mi hanno sempre accompagnato facendomi crescere e soprattutto PENSARE.
Mai prima di allora mi ero soffermato lungamente sui testi e sugli aspetti artistici della musica… i Tool (come molte altre esperienze nel corso della mia vita) mi hanno fornito una maggiore tridimensionalità e non è cosa da poco in mondo di immagini piatte e di reality show.
CITAZIONE
”I need to watch things die... from a good safe distance”
La via migliore, la più saggia nell'ascoltare questo nuovo album dei Tool è quella di sentirlo con la mente pulita, sgombra da aspettative e senza volgere lo sguardo al passato. Sono passati cinque anni e questi sono trascorsi anche per Maynard, Adam, Justin e Danny che hanno partorito qualcosa di diverso, un’opera figlia di questi tempi facendo però tesoro delle esperienze e dei suoni dei loro lavori precedenti, ma cercando di andare oltre... una sorta di innovazione silenziosa, non ostentata.
Sebbene la carta d'identità di questi quattro musicisti mostri come abbiano già da un po’ superato "gli anta", il talento e l'ispirazione non sono un fattore dipendente dall'età. E come questi signori siano riusciti a confezionare, quattordici anni dopo il loro esordio, un album a tratti più violento ed estremo di Opiate e Undertow ce lo dovranno spiegare un giorno, magari…
L’evoluzione dei Tool forse è rallentata, e forse non era lecito attendersi un lavoro che si discostasse in maniera drastica da Lateralus come quest’ultimo nei confronti di Aenima. Non era neppure lecito attendersi un disco che migliorasse quanto raggiunto da Lateralus, perché nel suo ambito a mio avviso ha sempre rappresentato la perfezione o quasi.
Era difficile riuscire a trovare qualcosa che stupisse e spiazzasse ancora una volta l’ascoltatore. E questo i Tool l’hanno capito.
10'000 Days non abbandona l’esperienza di Lateralus, che ricorre talvolta nel corso dell’album, ma sceglie di intraprendere strade diverse nelle atmosfere, nel suono, nei testi e negli intenti.
E’ un album più vario ed eterogeneo del precedente le cui canzoni erano coese da un’atmosfera granitica e tribale. Questo non significa che dopo cinque anni 10'000 Days non possieda una sua anima ben definita e un’evoluzione all’interno dei suoi 75 minuti… la sensazione è quella di un viaggio composto da capitoli differenti, ma strettamente legati l’uno all’altro.
L’ascoltatore incauto non avrà vita facile e potrebbe rischiare di perdersi fra corsie di ospedale, canti spirituali di nativi americani e inquietanti dilatazioni sonore ambient figlie di Lustmord. E’ quindi necessario dotarsi di grande concentrazione e possibilmente di un paio di cuffie per apprezzare al meglio le varie sfumature di colore, i rumori e i messaggi più o meno nascosti che fanno capolino nel corso di queste 11 tracce.
Laddove il suono di Lateralus sembrava provenire e rimbombare dall’interno di una grotta, attutito, ma distruttivo come una scossa tellurica in 10'000 Days si ha l’impressione di trovarsi nell’occhio del ciclone, a pochi centimetri dall’amplificatore di Adam Jones e dalla colossale batteria di Danny Carrey. La produzione di Joe Barresi sembra più definita, chirurgica, i suoni più limpidi e l’alone di misticismo sembra essersi in parte disperso.
Vicarious è un inizio al veleno dopo una breve introduzione che rimanda e si ricollega al capolavoro precendete, Lateralus... ma più che da queste similitudini la mia attenzione è rapita dai piccoli accenti messi da un Carrey che suona la batteria come fosse uno xilofono.
E’ la Stinkfist di 10'000 Days, diretta, immediata, cattiva e cinica, un'apnea di sette minuti (che finisce troppo in fretta) che lascia la voglia di rituffarsi subito in questo mare di riff.
Ma non c’è tempo per rifiatare perchè la successiva
Jambi in apertura suona rocciosa, muscolare, metal.
Ma si tratta solo di uno specchietto per le allodole perché quando parte il cantato la canzone si apre e si evolve... Se il percorso di Vicarious è una linea retta, senza deviazioni, Jambi è una curva con picchi di emotività molto alti e momenti di calma apparente. Su di essa Adam Jones compone quello che forse è il più bell’"assolo" della storia dei Tool.
La sua Les Paul con l’aiuto di un talk-box urla, ringhia, gracchia… insomma, parla.
Il binomio
Wings for Marie/10.000 Days prende metaforicamente il testimone da Parabol/Parabola a cui è difficile non pensare, essendo anch'essa una canzone spezzata in due metà fra loro inscindibili.
Le somiglianze però si fermano qui; se Parabola lasciava intravedere un messaggio di positività e speranza questa lunga suite è pervasa da un'atmosfera funerea... introdotta da un basso che rieccheggia il suono di una campana (a morto?) a cui si aggiunge lo scroscio della pioggia e il rimbombo dei tuoni. Il
benevolent sun di Jambi ha smesso di splendere.
E’ un ritorno a una maggiore linearità, a una forma canzone con venature di matrice post-rock che mi hanno riportato alla mente un certo Spiderland. Ma gli Slint non sono gli unici a essere omaggiati (di sfuggita) dai Tool, anche l’influenza degli dei della psichedelica rock, i Pink Floyd, e di quelli del progressive rock anni ’70, i King Crimson, appare evidente.
Una maggiore linearità non deve essere erroneamente confusa con maggiore semplicità d’ascolto... E' anzi un brano pesante e difficile (non nel senso comune del termine: quello della tecnica), il meno matematico e il più emotivo mai scritto dai quattro di L.A. e richiede un'immersione totale nel climax che riesce a creare. Da questo punto di vista ci troviamo di fronte a qualcosa di diametralmente opposto al passato.
Mai come in questo 10'000 Days sono le sensazioni, l’umore e i sentimenti a guidare l’ascoltatore per mano, conducendolo in una dimensione intima.
Un’altra novità del disco, qui in primo piano, sono i preziosi intrecci vocali intessuti da Maynard; sovraincisioni della voce non inedite invece fra gli A Perfect Circle, pensate a
Fiddle and the Drum in eMOTIVe ad esempio.
Solo verso la fine di questa maratona di 17 minuti la canzone sembra aprire le ali e librarsi in volo pur fra nubi minacciose, salvo poi ricacciarci con violenza a terra.
CITAZIONE
”Who could deny you were the one who would have made it,
You'll have a piece of the divine.
This little light of mine it gives your past unto me, I'll let it shine,
To guide you safely on your way, Your way home...”
Di emotività in questo 10'000 Days Maynard ne riversa davvero tanta e il dolore per la perdita della madre e il tentativo di superarlo è sicuramente l’elemento preponderante… e sempre a questo si ricollega
The Pot dove a parlare, in una singolare introduzione a cappella di un Maynard trasformista in versione eunuco, è forse proprio la sua voce, acuta e femminile.
Che si tratti della madre o di una denuncia sociale qui è Justin il direttore d’orchestra con un giro di basso che ricorda vagamente 46&2 (ma in versione quasi funky) attorno al quale si muovono tutti gli altri membri del gruppo mescolando la grezza potenza di Opiate con l’evoluzione sancita da Lateralus e la cura per le melodie acquisita da MJK in sede A Perfect Circle. Il risultato è una canzone immediata, che colpisce al primo ascolto come un pugno in pieno stomaco.
Lipan Conjuring fra canti indiani inaugura il lato “strano” e acido del disco in cui la psichedelia la fa da padrona e (se escludiamo Rosetta Stoned) in cui sono più evidenti i segni del cambiamento. A questa prima stranezza ne seguono subito altre due:
Lost Keys è “solo” un arpeggio estremamente rallentato, dilatato e triste, come a sottolineare una situazione di immobilità e stallo, con le voci soffuse di un dialogo fra infermiera e dottore sulle sorti di un paziente (Blame Hofman) i cui pensieri seguiranno a ruota libera nella canzone successiva, con tutte le distruttive conseguenze del caso.
LSD? HP Lovecraft? Qualunque sia la risposta se nell’ospedale regna una calma piatta e deprimente, nella mente del paziente è in corso un vortice di emozioni e visioni.
CITAZIONE
”I'm out of my head… Am I alive? Am I dead?”
Rosetta Stoned è il titolo giusto per una canzone che per essere interpretata e sviscerata ha bisogno di una stele o di qualcosa di simile.
Prendete i migliori riff della discografia dei Tool, da Third Eye a H., fino ad arrivare a Reflection metteteli nel frullatore, combinateli con un Maynard filtrato che canta quasi fosse un ubriaco delirante, destrutturate il tutto e otterrete forse qualcosa di simile a questa canzone.
Delirium Cordia. Vera e proprio follia in musica, flashback allucinati e ipnotici.
Che la vicinanza e l’amicizia fra i Tool e i Fantomas del genietto Mike Patton abbia dato i suoi frutti (malati)? E’ una canzone creata con la tecnica del flusso di coscienza, un incubo ad occhi aperti.
Servono molta pazienza e ripetuti ascolti per venire a capo di questa pazzia e non venire travolti dal mare di elementi che la compongono spesso slegati l’uno dall’altro.
Le acque tornano a calmarsi e
Intension giunge come una ventata d’aria fresca per riportarci alla purezza di una condizione originale.
Qui i Tool si divertono a usare l’elettronica integrandola perfettamente nella struttura del pezzo. Intension come Disposition su Lateralus o Vanishing su 13th Step potrebbe ingiustamente passare inosservata, ma, a mio avviso, si colloca fra le perle assolute, ma nascoste, della discografia della loro discografia. Elegiaca, ipnotica, una melodia sulla quale Adam Jones ricama arpeggi e delay pinkfloydiani finissimi e leggeri. In una parola: bellissima, e strettamente legata all’ultimo capitolo dell’album, la conclusiva
Right In Two.
Una canzone che parte in sordina per poi portarti in alto e lasciarti a mezz’aria fino a mozzarti il respiro e farti soffrire di vertigine.
Quando esplode cresce, cresce senza più fermarsi... sembra di scalare un monte, ma senza sforzi. Semplicemente ti eleva. La melodia, semplice e travolgente, è quanto di più solare mai scritto dai quattro, ma in stridente contrasto col testo in cui ancora una volta si torna sul tema dell’incomunicabilità fra le “scimmie”, noi razza umana. La nostra tanto decantata evoluzione appare flebile e risibile di fronte alla nostra incapacità di prendere coscienza della nostra situazione.
Siamo divisi, non uniti in un mondo ostile in gran parte per colpa nostra… un messaggio romantico, in senso storico, quasi leopardiano.
A chiudere il tutto è
Vigenti Tres (23 in latino) inquietante e oscura traccia rumoristica in cui una voce mostruosa emerge dall’abisso per comunicarci un messaggio di difficile interpretazione, ma capace di mettere i brividi.
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Le conclusioni?
Ancora paragoni col passato? No, basta… semplicemente una considerazione: se questo disco vi emoziona, vi fa piangere, sorridere, pensare… allora è musica per le vostre orecchie, nient’altro.